31 ottobre 2013

L'asilo occupato: water and power


 

Il caso Paglialunga avrà pure eroso a fondo la credibilità e il potenziale politico dell’assessore al commercio, ma la personalizzazione delle colpe non rappresenta di certo un’uscita di sicurezza né per il Sindaco – che con la nomina degli assessori attiva una cessione temporanea, reversibile e fiduciaria delle competenze assommate nella sua figura presidenziale - né per la Giunta, che essendo giuridicamente organo del Comune, assieme a Consiglio comunale e primo cittadino, va monitorata e giudicata in solido e non per il tramite del singolo componente. Il caso Paglialunga non è, insomma, un capitolo ad personam ma una crisi politica di Giunta di cui dovrebbe essere investito il Consiglio Comunale. E' invece prevalsa la gestione privatistica, in cui il cerchiobottismo delle riunioni notturne e del sinedrio di maggioranza s'impone sulla centralità delle istituzioni e della pubblica discussione. E, come lumaca dopo il temporale estivo, è subito uscito allo scoperto il candidato renziano Michele Crocetti che, per restare rottamatore e cantore della politica bella e gentile, non poteva baciare il rospo subendo un’operazione di berlusconismo contraffatto e in do minore. La dea bendata gli ha messo in mano il biglietto vincente e per passare all’incasso il giovane candidato si farà, inevitabilmente, catalizzatore di un dissenso della base democratica contro sindaco e consiglieri che hanno sostenuto il giudizio sospensivo su Paglialunga. Altrimenti, se non cavalca l’onda, la segreteria se la sogna e la cede in comodato a Monacelli. Domenica si terrà il Congresso del Pd fabrianese ed è facile che saranno i morti a careggiare i feriti. 

Ma il “passo avanti e due passi indietro”, per la verità più democristiano che leninista, non è un garbuglio casuale, l’incertezza eccezionale che volentieri si concede agli impeccabili, ma il tratto dominante di questo primo scorcio di  quinquennio sagramoliano. Al primo cittadino vanno sicuramente concesse alcune attenuanti generiche; attenuanti che si debbono a chi si ritrova ad amministrare una città costretta a cambiare rapidamente pelle e comportamenti e a chi era abituato a cariche politiche – come la vicepresidenza della Provincia – profondamente cerimoniali e solo superficialmente connesse all'aspra dinamica del decidere. Ma quel che non si emenda e non si può tacere è l’approccio seriale ai nodi irrisolti, praticato attraverso un metodo che si ripete sempre fino a diventare standard: oscuramento e affumicamento del vero, limatura permanente d'angoli e d'asprezze e la tendenza irrefrenabile ad affrontare i problemi e le decisioni sempre di lato e mai di petto, restituendo – con la cadenza ossessiva di un pendolo in movimento perenne – la sensazione di un’incertezza elevata a manomissione, a deficit necessario per prolungare l’attesa e risolvere il caso logorandone i fianchi fino a togliergli evidenza e urgenza. Quel che difetta in Sagramola è ciò che Pasolini ebbe meravigliosamente a definire una “dura eleganza non cattolica”, ovvero la capacità di leggere la realtà con piglio non remissivo ma senza sacrificare lo stile ed evitando di sprofondare nel gioco clericale del peccato e della sua remissione. Di questo modo di fare - in cui si mescolano politica, cultura, retaggi, orgogli e pregiudizi – l’amministrazione di centrosinistra offre quotidiani ed emblematici squarci. E’ quella che in psicologia viene definita “coazione a ripetere”, la tendenza a mettersi nei guai, a imporsi il "penoso e l'appenato" come cifra distintiva fino a farne patologia, a servire il vero negandolo e disponendolo in un angolo appartato e senza luce. 

La questione dell’ex asilo del Borgo, occupato e trasformato in laboratorio sociale di cui si giovano cittadini e associazioni, è da questo punto di vista una sintesi straordinaria della coazione a ripetere. Da un lato una gioventù magmatica che cerca nuove sperimentazioni sociali a partire dalla disarticolazione dei poteri e del sistema economico locale; dall’altro un’amministrazione comunale asserpata in editti burocratici, in lettere che vanno e vengono per uffici, destinatari e protocolli, in promesse a metà e nel buco nero di una società remunerata con l’immobile ma che l’immobile non se lo intesta. Fino all'estasi scajolesca di gente che sa e gente che ignora. In questo quadro Sagramola ha, come al solito, agito per qualche istante di petto e poi subito di lato, perché a disagio nel confronto duro e paritario e assai più agile e scattante tra collosità e mollezze. Il Centro Sociale Fabbri, che vive l’occupazione di spazi come tratto genetico e identitario, ha tenuto botta amplificando il consenso popolare e trasformando l’occupazione in una metafora di produzione creativa. E lentamente la minaccia di sgombero ha cominciato ad andare e venire, come lo sventolìo di ordinanze e di indici puntati. Ma, probabilmente, resta intatto nel Borgomastro il desiderio di un repulisti, anche perché il tempo stringe e l’amicissimo Letta sta per fare visita. Occorre liberare il salotto buono dai rischi che la bella cerimonia sia scalfita da un rovente saldarsi di operai e di gioventù. Ma come realizzare il “tutti a casa” senza che del "tutti a casa" si ragioni troppo e troppo pubblicamente? Facile: si ricorre all’assedio, in modo che lo sgombero non sia chiassoso ma lentamente distillato. Niente di ferocemente saraceno, sia chiaro, ma azioni efficaci e circoscritte, orientate a tagliare quel comfort minimo da cui anche un’occupazione post moderna non può permettersi di prescindere. Da quanto si mormora pare sia in fieri un’operazione utenze, una Shock and Awe incentrata sul taglio dell’acqua e della corrente elettrica agli occupanti. Sulla questione dell’ex asilo ci torneremo ancora perché c’è davvero tanto e tanto da dire, ma per ora, più che altro, ci solletica rimarcare la reiterazione del metodo. Un Sindaco di stazza e di rango ha due possibilità: o fa sgomberare subito o subito tratta e chiude la faccenda. Far trascorrere tempo - sperando che l’occupazione defluisca da sola e per semplice stanchezza - e poi ricorrere a modalità da pubblicano delle antiche colonie romane, tagliando acqua e luce, è il simbolo e il sintomo di un fare condominiale in cui convergono isterie vicinali e pochezze in millesimi. Ed è sberleffo scintillante e carnevalesco apprendere che gli occupanti si stanno organizzando per vanificare il sagramolesco e incerto assedio. Power and water: energie alternative e poi chiare, fresche e dolci acque. Perchè stavolta chi beve acqua non è detto che abbia anche qualcosa da nascondere.

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30 ottobre 2013

Chi è il vero salvatore di Paglialunga

Stamattina i giornali offrono approfondimenti e chiavi di lettura sulla decisione della maggioranza di rinnovare la fiducia all’assessore Paglialunga e sul perchè, come ha efficacemente sintetizzato il Resto del Carlino, Sagramola abbia deciso di non decidere. Un dato oggettivo quello dell’impasse decisionale; un elemento che emerge con forza, come in un gioco di chiaroscuri, nonostante il tentativo di trasferire all’esterno – seguendo il classico canovaccio del falso ideologico finalizzato al rovesciamento della realtà - l’immagine pensosa e controversa di un Sindaco che, alla fine, sa farsi comunque carico di una decisione controversa e amara. Ma nessuno degli osservatori ha notato e sottolineato un particolare antecedente e decisivo, una presa di posizione che, forse, spiega la vera origine della “salvezza” dell’assessore e il perché di questa scialuppa di salvataggio così generosamente messa a disposizione. Per comprendere l’accaduto occorre tornare a domenica scorsa. Precisamente a una dichiarazione rilasciata dal Presidente della Confcommercio e riportata nella pagina locale del Messaggero. E’ stato, infatti, Mauro Bartolozzi a tracciare la linea della battigia, sostenendo con sintetica chiarezza quattro concetti condivisibili: che Paglialunga è stato superficiale, che la gogna è un corpo estraneo rispetto a una serena valutazione dei fatti, che si è innocenti fino a sentenza definitiva e che l’errore commesso non ne mette in discussione l’operato di assessore. Per questa ragione, se si dovesse “strillare” un titolo a effetto ma politicamente veritiero, si potrebbe legittimamente scrivere “Bartolozzi salva Paglialunga”. In realtà la posizione della Confcommercio deriva da specifiche difficoltà settoriali che sono l’effetto evidente di una crisi economica locale che costringe a una riduzione drastica della propensione al consumo. E quando la crisi morde in profondità è fondamentale, per gli operatori, poter contare su una continuità di interlocuzione e quindi su riferimenti politici e istituzionali stabili. Il rimpasto delle cariche e la redistribuzione delle deleghe possono, infatti, soddisfare le geometrie variabili e gli equilibri di potere della politica, ma di certo non producono valore aggiunto per le categorie economiche, che si ritroverebbero – come in un eterno gioco dell’oca – a retrocedere di diverse caselle e a ricominciare daccapo di fronte a una repentina estromissione dell’assessore di riferimento. L’intervento del Presidente di Confcommercio non appare, quindi, come uno scivolamento politicista o come una indebita intrusione nel campo delle decisioni istituzionali ma si configura, piuttosto, come una forma di pragmatismo categoriale che riporta le lancette del confronto sui temi durissimi e centrali dell’economia, dell’impresa e della sopravvivenza materiale della nostra comunità. Una cosa è certa: queste considerazioni evidenziano il persistere di un problema di merito, che chiama in causa il manico, ossia le capacità di governo del primo cittadino. A breve torneremo sul tema che merita una valutazione equanime. E lo faremo chiedendoci – come fece anni fa l’Economist a proposito di Berlusconi – Why Giancarlo Sagramola is unfit to lead Fabriano. Perché Sagramola è inadeguato a guidare Fabriano.

ps. Oggi mia intervista al blog dei giovani di Radio Canaja Intervista

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29 ottobre 2013

Parla la maggioranza, tace Giancarlone e Don Abbondio Risorge


 

Come da promessa odierna la maggioranza di centrosinistra ha reso note le motivazioni politiche del temporaneo salvataggio concesso all'assessore Paglialunga. E lo ha fatto, nel primo pomeriggio, affidandosi a un comunicato stampa polivalente e polimorfo capace di incarnare, nel contempo, un capolavoro assoluto di microlingua politichese - decodificabile solo tramite ricorso alla Stele di Rosetta -, un manifesto scintillante di ipocrisia politica e un modello emblematico ed esaustivo del falso ideologico applicato all'uso della lingua italiana:"La maggioranza che sostiene l'amministrazione comunale, riunita in seduta comune la sera del 28 ottobre 2013 nell'esprimere solidarietà umana e personale a Mario Paglialunga, rinnova la fiducia alla Giunta presieduta dal Sindaco Giancarlo Sagramola e chiede che ogni decisione in merito alla sentenza che ha visto la condanna dell'Assessore Paglialunga venga subordinata alla conoscenza delle motivazioni della sentenza stessa anche, in considerazione del fatto che ogni cittadino si presume innocente fino alla condanna definitiva al terzo grado di giudizio. Il Sindaco Giancarlo Sagramola ha condiviso e preso atto della decisione". Di fronte a queste parole, vuote come un appartamento sfitto e imbarazzate come un intestino dopo uno stravizio di zuppa inglese, è difficile avventurarsi in una esegesi politica, senza correre il rischio di cadere nella repulsione intellettuale. Eppure è evidente come anche attraverso il valore intrinseco di questo comunicato stampa sia possibile misurare l'infimo livello energetico e proteico di questo centrosinistra sinistra fabrianese ormai costretto a sopravvivere togliendo peso e scandalo alla sue magagne. Innnzitutto va considerato che, da circa venti anni, si è affermato un sistema di governo degli enti locali incentrato sulla figura dei sindaci borgomastri, chiamati dalla norma e dal furore popolare e maggioritario a esprimere un primato politico e decisionale rispetto alla maggioranza che li sostiene. Nel comunicato stampa si assiste, invece, a un vero e proprio rovesciamento di senso della norma: il Sindaco, vaso di coccio tra i vasi di ferro, tace e si autorelega ai margini e in sua vece parla, con lo spirito di un coro greco ma senza il bridivo di una tragedia, quel soggetto generico collettivo, non raffigurabile e ricondicibile a un volto, che è la maggioranza. Una maggioranza che esprime solidarietà umana e personale all'assessore Paglialunga, ma si guarda bene dall'estendere il moto affettivo anche a una solidarietà di taglio e cucito politico. Il che significa che, di fatto, la maggioranza ha sfiduciato Paglialunga ma non ha avuto il coraggio politico ovvero le palle, come direbbe Francesco Totti, per disarcionarlo e consegnarlo all'oblio. Un assessore, infatti, o gode di fiducia vera e integrale o non ne gode affatto, perchè da questo momento a ogni sua azione corrisponderà una decisione a metà e un apporto dimezzato alle attività dell'amministrazione comunale. Infatti la maggioranza ha trovato la quadra soltanto rinnovando la fiducia politica alla Giunta. Ma considerata in solido, come entità in grado di inglobare e nascondere il destino cinico e baro della pecora nera Paglialunga. Ma il vero e proprio capolavoro manzoniano, quasi una citazione perfetta del retaggio donabbondista, giunge quando la maggioranza si trova a dover arzigogolare un qualche straccio di motivazione e di giustificazione politica. In pratica il Pd & company rimandano a eventuali decisioni capestro  solo dopo che risultino chiare e distinte le motivazioni della sentenza, come fossimo innanzi al delitto di Cogne e non a una fattispecie amministrativa minore ma tecnicamente chiara come può essere chiara la colpa di chi tampona l'automopbile che di colpo inchioda. E, dulcis in fundo, arriva il dessert che non ti aspetti in forma di berlusconismo d'accatto e di garantismo a corrente alternata perchè il centrosinistra scopre che se non ti chiami Berlusconi e se non sei troppo impelagato in militanze a destra, sei innocente fino al terzo grado di giudizio. Questo è il livello umano, politico e intellettuale di chi governa questa sventurata città. E altro non aggiungo se non il ricordo meraviglioso ed eterno del dialogo tra Don Abbondio e il Cardinale Borromeo sul coraggio. Già, il coraggio: quello che se uno non ce l'ha non se lo può dare.

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Paglialunga salvo e il caldaio bollente di Sagramola


 

L'assessore Mario Paglialunga si è rimesso alle decisioni del Sindaco Sagramola, che è l'unico titolato a confermare o ritirare le deleghe attribuite ai suoi collaboratori di Giunta. A tale proposito stanotte, poco dopo le una, Giancarlone nostro ha postato un commento sulla pagina Facebook di un amico comune che lo richiamava a una decisione netta e rigorosa sul caso: "(...) io mi scotterò, come quando da piccolo sono caduto nel caldaio dell'acqua bollente." Una dichiarazione in apparenza di pura memorialistica personale e nazionalpopolare ma rivelatrice delle decisioni da poco assunte, visto che a quell'ora si era conclusa da poco la prevsita riunione plenaria di Giunta, maggioranza consiliare e segretari di partito per definire e inquadrare il destino dell’assessore al commercio. La sensazione - leggendo il fatalistico e mesto commento del Sindaco - è che Paglialunga resterà al suo posto, ovvero che la maggioranza abbia fatto quadrato senza particolari e specifici dissensi su un caso giudiziario in cui è evidente la sproporzione tra l'entità della condanna e l'ondata di puritanesimo che si è scatenata in città. E forse questo spiega la confessione avvilita del Sindaco, consapevole che sarà lui e soltanto lui a rispondere politicamente di questa difesa unanime del fortilizio assediato dai moralizzatori. Anche perché se Paglialunga avesse ricevuto un pollice verso, in base a quanto previsto dagli accordi pre elezioni su cui fu strutturato il centrosinistra e il sostegno alla stessa candidatura di Sagramola, sarebbe dovuta subentrare al suo posto Lilia Malefora, con lo spettacolo pirico di una giunta ad altissima densità forense e tre avvocati schierati di punta, di cui due operanti nel medesimo studio legale. Ma c'è di più, perché il patto di maggioranza prevedeva pure che ad ogni assessore corrispondesse almeno un consigliere comunale riconducibile allo stesso gruppo e alla stessa lista. Con Paglialunga assessore la corrispondenza risulta rispettata in quanto sia lui che la Malefora hanno lasciato l'Italia dei Valori per approdare al Centro Democratico di Tabacci e Donadi. Con Paglialunga dimesso e la Malefora assessore si sarebbe, invece, determinato un problema politico perchè in Consiglio Comunale sarebbe entrato in sostituzione il terzo dei non eletti della lista che, in caso di simpatie espressamente dipietriste, avrebbe potuto costituire nuovamente il gruppo dell'IDV, determinando lo scollamento con l’eventuale ruolo assessorile della Malefora e gettando nel caos una maggioranza numericamente forte ma assai fragile dal punto di vista politico. Ma il vero sconfitto di questa partita politica è il giovane Michele Crocetti, candidatosi da poco alla guida del Partito Democratico, perché fare quadrato attorno a Paglialunga se risulta comprensibile e naturale in una logica di antico e razionale machiavellismo politico, è assai difficile da gestire per un giovane renziano che sogna una politica come nobile e alta forma di volontariato e nasce nel microcosmo fiorentino della rottamazione generazionale e comportamentale. Il Congresso locale del Partito si terrà domenica prossima ed è poco probabile che il caso Paglialunga non precipiti pesantemente nella discussione e nelle decisioni del principale partito cittadino. E la sensazione è che Crocetti possa, di colpo, ritrovarsi anatra zoppa, a meno che non decida di far saltare il banco e di sparigliare, producendo una posizione di profonda e totale rottura rispetto alle decisioni del Sindaco e del gruppo consiliare di cui il padre Riccardo è capogruppo. Staremo a vedere, per capire chi sarà il vero destinatario dell’ordalia evocata da Sagramola quando fa cenno a quella sua antica ma attualissima immersione nel caldaio bollente.

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28 ottobre 2013

La ricca polpa del sindacalismo a "quattro ruote"

 
Ultimamente abbiamo raccolto lo stimolo e le immagini di una pratica sindacale fortemente motorizzata e di un conflitto sociale a “quattro ruote”, che ha spinto le federazioni metalmeccaniche locali a organizzare, di frequente, spolette automobilistiche tra Fabriano e Ancona. Sia sul versante Indesit, con accalorate riunioni in Regione, sia su quello Jp con proteste avanti a Unicredit e incontri consultivi co l'autorità prefettizia. Qualcuno, malignamente, ha evocato il rischio di una lotta di classe geneticamente modificata in attività di tour operator, ma ovviamente si tratta di linguaggi abrasivi vincolati ad ambienti che intendono il sindacato più come problema che come corpo intermedio, comandato a una essenziale funzione di cerniera sociale. Anche perché sulle "trasferte" dei lavoratori – al di là di ogni possibile ironia - si stanno scomponendo e disarticolando equilibri che, in una logica di sistema, ricadranno direttamente sui contenuti negoziali della vertenza Indesit. Giovedì 31 ottobre, al Ministero dello Sviluppo Economico, si terrà, infatti, una riunione del tavolo tra azienda, sindacati e governo che, secondo fonti autorevoli, potrebbe risultare cruciale per lo sblocco la trattativa con la multinazionale fabrianese del bianco. Intanto da Radio Fabbrica trapela un dato interessante: pare siano sei i pullman di lavoratori che raggiungeranno Roma la vigilia di Ognissanti per svolgere un inevitabile ruolo di pressione psicologica sul negoziato e sulle modalità di confronto tra le controparti. Si tratta di un'opzione che altera oggettivamente il clima negoziale, se non il corso stesso delle cose, e assume particolare rilievo proprio perché era sembrato che la trattativa dovesse svolgersi senza il fiato dei lavoratori sul collo e facendo deliberatamente a meno della loro presenza fisica. Il sindacato sa bene che se da un lato la presenza dei lavoratori ne rafforza il potere negoziale nei confronti della Indesit, dall’altro l’assembramento di lavoratori vocianti costituisce anche un monito per le federazioni metalmeccaniche, che si sentiranno guardate a vista e quindi costrette a restringere e incanalare, senza variazioni sul tema, lo spazio della propria fantasia negoziale, con pesanti ripercussioni in termini di qualità e legittimità della rappresentanza. Le novità, come sempre, arrivano direttamente dalla fabbrica dove si è fatto improvvisamente fluido il rapporto tra le sigle sindacali e i lavoratori. In modo particolare ad Albacina, che è stata a lungo considerata la Vandea del conflitto per la sua ritrosia ad alimentare un confronto sistematico e aspro e per la sensibilità rispetto alle eredità simboliche e di appartenenza del merlonismo. Il primo segno di cedimento dell’egemonia moderata su Albacina ha preso forma dopo le ferie, quando la sigla sindacale maggioritaria accettò di anticipare il rientro per recuperare una parte della produzione perduta con gli scioperi di fine luglio. E un’altra scossa pare si sia verificata di recente, quando un gruppo di lavoratori, a schiacciante maggioranza al bacinella,ha deciso di recarsi a Roma per la riunione del tavolo ministeriale pare senza il placet sindacale. L’impressione sempre più fondata e solida è che ci siano anche questi decisivi fenomeni di bradisismo sindacale dietro l’effervescenza degli ultimi giorni. Una variabile imponderabile che diventa parte integrante del senso di queste giornate e cioè la possibilità di un’incrinatura profonda della rappresentanza, dovuta a uno strappo di coscienza dei lavoratori in relazione ai rischi connessi a un accordo che si profila punitivo per il sistema produttivo fabrianese e per l’occupazione del territorio. E questi movimenti, la cui sismografia aiuta certamente a comporre un quadro analitico più mosso e articolato, non potranno che incidere sulla qualità dell’accordo. Perché un accordo dovrà essere comunque siglato, sia per evitare azioni unilaterali da parte dell’azienda sia a tutela dei lavoratori che hanno bisogno come l’aria di prospettive trasparenti e certe. Un accordo di garanzia del lavoro e di tutela della produzione che dovrà necessariamente essere presentato in tutti i dettagli ai lavoratori, agli stakeholders e alle comunità locali e sui cui i lavoratori dovranno esprimere un voto di ratifica. Un voto che, nelle attuali condizioni, sancirebbe una spaccatura tra Fabriano e Caserta e tra lavoratori fabrianesi e sigle sindacali locali. Ed è anche per questo insieme di ragioni che dietro il “sindacalismo a quattro ruote” si intravede parecchia polpa su cui meditare e soffermarsi. Così come sarà interessante osservare e valutare il simbolismo della annunciata contestazione al Presidente Enrico Letta, in città a metà novembre per festeggiare i cinquanta anni della Fondazione Aristide Merloni. A distanza di pochi metri, nel cuore della città, avremo il Teatro Gentile affollato di signore e signori in tiro e gli operai che provano a difendere la dignità del lavoro. Ancora una volta i croissant sbattuti in faccia a chi richiede pane. E un’altra occasione per vedere chi sta con chi.

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27 ottobre 2013

Paglialunga, la Quadrilatero e i Croissant



 
La mia levatrice ideologica fu riformista e togliattiana, ovvero protesa alla scissione tra politica e morale, alla separazione netta tra l’arte del possibile e l’ossessione etica. Allo stesso modo fui rapito poeticamente da Sandro Penna che motteggiava rivolto ai moralisti: il mondo che vi pare di catene tutto è intessuto di armonie profonde. Ed è in ragione di questa combinazione di poesia e cinismo che, diversamente da quel che sostengono flaccidi ragionieri nell’etere internettiano, non mi seduce la caccia alle streghe e, men che meno, m’accaloro, come un Bernardo Gui qui trapiantato dall’età delle tenebre, attorno alle disavventure giudiziarie di un assessore che si inguaia per una firma. Paglialunga è, notoriamente, il primo nemico di Paglialunga e si autolesiona maldestramente per il tramite di superficialità e imprudenze. Ma, sia chiaro ai molti poliziotti del cielo, che lo sventurato non è un malvivente ma soltanto una leggera. Al suo posto darei le dimissioni per per ragioni di stile e per evitare che altri s’ingrassino speculando sulla condanna, ma se lui non facesse altrettanto non mi strapperei le vesti, anche perché lascerebbe all’ondivago Sagramola la patata bollente in mano, il che è gioco che vale la candela. Parliamo, infatti, di un peccatuccio che scolora al cospetto delle grandi trame corruttive e concussive che ammorbano la vita pubblica e ne pregiudicano le dinamiche democratiche. Di certo non contesto la fattispecie del reato e la sentenza di primo grado ma preferisco ragionare su una visione politica del falso ideologico, perché ridurlo al penalmente rilevante rischia di oscurarne la possente funzione chiarificatrice. Quel che indigna, per intenderci, non è tanto la firma farlocca in calce all’accettazione di una candidatura elettorale, ma l’adulterazione permanente e volontaria della realtà, il falso ideologico quotidiano, la manipolazione del dato di natura con cui una intera classe dirigente irresponsabile cerca di mascherare e occultare la sofferenza e le domande del popolo.


Il falso ideologico ricorre in un celebre e sprezzante aneddoto storico, che risale alla rivoluzione francese, quando Maria Antonietta d’Austria di fronte alla fame dei parigini ordinò che agli straccioni si dessero croissant invece che pane: uno stacco profondo e feroce tra verità e manipolazione, tra realtà e cecità che fu pagato con la reclusione alla Concergerie e, poi, con una lama sul collo alla Concorde. Ma commetteremmo grave errore di valutazione se immaginassimo l’orrore del vero come prerogativa esclusiva e congenita delle antiche monarchie e dei moderni totalitarismi. Le elite democratiche, in forme diverse e con altre finalità, non si distanziano dalla prassi delle autocrazie perché l’obiettivo di tutte le classi dirigenti – al di là dei sistemi politici in cui esse operano – è il medesimo sotto ogni cielo: durare il più a lungo possibile. Fabriano chiede pane ma gli si danno croissant. E in questi giorni ne abbiamo avuta sincera e inconfutabile prova.


Negli ultimi tempi il piedistallo su cui era assisa la classe dirigente fabrianese si è prima incrinato e poi rapidamente sbriciolato. La crisi del merlonismo, di fatto, ha cancellato onore e funzione di una classe dirigente mediocre e di tanti compagnucci della parrocchietta che, invece di prendere la via dell’esilio, pretendono di tenere ancora il timone in mano: voglia matta di durare, piccoli interessi materiali da gestire, gettoni di presenza da incassare e qualche transazione buona da attivare. Per garantire questa continuità serve il falso ideologico che, dalle nostre parti, è stato applicato seguendo il metodo algebrico, ossia cambiando il segno alla realtà e trasformandola nel suo contrario piuttosto che modificandone singole parti e componenti. 


La Quadrilatero è la summa del falso ideologico inteso come chiave di lettura non penale ma politica della realtà. La questione delle grandi opere, in Italia, è infestata da un groviglio di società ad hoc, di subappalti, di contractor, di fallimenti, di liquidazioni, di subentri, di norme in cui la collettività soccombe con una rassegnata dichiarazione di impotenza. E questa complessità consente di giocare con successo sul filo sottile che separa la verità dalla menzogna, che è poi la vera cifra del collasso italiano. Ma, come si dice saggiamente, gli occhi non mentono e per comprendere cosa sta accadendo attorno alla Quadrilatero non è necessaria esperienza d’ingegneria e di lavori pubblici, ma è sufficiente fare un giro in auto da Fossato di Vico a Serra San Quirico sbirciando attentamente tra grandi ferraglie e cartelli. Ti ritrovi davanti un pezzo di Appennino ferito e segnato da una linea di sbancamenti che somiglia drammaticamente a un infarto ambientale. Le strade servono a migliorare la vita degli umani e tutti sappiamo che c’è un passaggio preliminare del tracciato distruttivo e impattante. Ma quando le opere funzionano e i soldi girano correttamente i lavori fervono e le ferite si chiudono con la rapida efficienza delle api che completano l’alveare. Il problema della direttrice Perugia Ancona, sul troncone che attraverso la nostra terra, è che essa emana l’odore inconfondibile e il gelido panorama dell’incompiuta. Non tanto e non solo per i fallimenti e le amministrazioni controllate, a cui sono soggette le società coinvolte nell’opera, ma per una serie di elementi collaterali che l'occhio attento comincia a rilevare e raccontare, nonostante il serrato e fervido impegno della politica a dire che va tutto bene madama la marchesa e che a parte qualche singhiozzo i lavori riprenderanno a breve e si concluderanno in tempi rassicuranti e certi. Nessuno smantellamento è in corso ma anzi un potenziamento dei lavori e delle operazioni: è la formula rituale del falso ideologico incentrato sul metodo algebrico della realtà cambiata di segno.


Ma cosa vedono gli occhi attenti del cittadino? Chilometri e chilometri di sbancamenti, di fori, di gallerie e di sfregi all’Appennino, prodotti dalla mano umana e dalle sue possenti appendici meccanizzate. E allora ti domandi: ma se tanto mi dà tanto dove è andato a finire il materiale inerte, il pietrisco e l’argilla tirati fuori a milioni di metri cubi dalla catena montuosa più antica? E’ verità o sogno ad occhi aperti la tesi di chi sostiene che l’inerte veniva buono per completare la terza corsia della Bologna Canosa nel tratto marchigiano? Ed era nel caso possibile praticare questo genere di economie quando il materiale di scavo deve essere posto in sicurezza all’interno del cantiere? La norma e il buonsenso consentono migrazioni bibliche di materiale demaniale per altri usi non codificati? O serve invece un’autorizzazione statale capace di tranquillizzare e rasserenare il diritto a sapere delle genti? Siamo contribuenti maliziosi se, conseguentemente, ci domandiamo come mai su questo versante si siano scavate unicamente gallerie e un solo viadotto necessario per bypassare la ferrovia e l’Esino? La maggioranza dei cittadini non possiede competenze ingegneristiche e di lavori pubblici ma non ha l’anello al naso. Fabriano, città declinante e persa, è stata forse sacrificata - anche dal punto di vista ambientale – in nome d'altre opere prioritarie in termini di clamore e di pubblico consenso? 

Eccolo il rischio del falso ideologico che ci opprime il cuore: la grande opera necessaria alle comunità dell’entroterra che di colpo appare funzionale ad altre operazioni, col sistema politico che finge di non vedere e dice che tutto va bene, concentrando lo sguardo sui croissant parigini invece che sulla distruzione probabilmente definitiva di questo pezzo d'entroterra. Come cittadini ci siamo rotti i santissimi di ricercare verità e responsabilità perchè sapere non sana l'errore pregresso e avvelena l'animo. Ci basterebbe soltanto che qualcuno si destasse dal silenzio non innocente per dirci come e quando si chiuderà questa pagina che ormai oscilla tra speranza e vergogna. Per smettere, finalmente, di avere perennemente addosso la sensazione del danno e della beffa.

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