30 aprile 2014

Ardo: o Porcarelli o muerte?

Ieri è stato il giorno dello stupore, della rabbia e dell'orgoglio. I sindacati di fronte al pronunciamento del Tribunale del Riesame, che ha confermato l'annullamento della vendita di Ardo a JP, hanno replicato il poco che sono riusciti a combinare in questi mesi e in questi anni: chiamare a raccolta i lavoratori davanti agli stabilimenti che furono della Antonio Merloni. E' una volontà di ritrovarsi nel contempo prevedibole e difensiva, ma il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Quindi il primo appello alla mobilitazione ci sta tutto. Come ci sta la semplificazione brutale delle responsabilità e l'attacco fasciocomunista ai poteri forti e alle plutocrazie bancarie. Ma quello delle emozioni è un tempo oggettivamente breve per il sindacato, perchè la contrattazione è un gioco di forze razionale e realista, dove le emozioni servono a dare anima alla trattativa ma non possono mai condizionarne le ragioni e il profilo. Invece le federazioni dei metalmeccanici hanno preferito replicare una simbolica "chiamata alle armi" per le sette di stamattina. Così come sembra inutile e disperato il fuoco amico del Governatore Spacca - che sulla vicenda ci si è giocato il terzo mandato - quando fa appello al liberale Renzi per consigliargli un improbabile intervento statalista e assistenzialista. Ma oggi mobilitare è un po' morire, perchè c'è una lezione duplice e durissima da apprendere in fretta e cioè che non si può fare sindacato, rappresentanza e difesa del lavoro restando appollaiati attorno al pronunciamento di un Tribunale e che non si può gridare per mesi, con toni caraibici e un po' castristi, "o Porcarelli o muerte". Fossi al posto di Bassotti, Gentilucci e Cocco - che sinceramente non invidio - smetterei di inseguire sentenze e lascerei Porcarelli ai suoi affari e al suo destino di imprenditore smaliziato e furbo. Il pronunciamento del Tribunale del Riesame ha tracciato una linea netta di demarcazione e tutti dovrebbero ragionare dando per certo l'azzeramento della situazione e il ritorno al punto di partenza, come in un beffardo e drammatico Gioco dell'Oca. Ed è esattamente adesso che serve un minimo di fantasia contrattuale e di pensiero laterale. Se la Cassazione conferma in terzo grado l'annullamento, la palla torna ai commissari che teoricamente dovrebbero riaprire le procedure di vendita. E siccome un bando internazionale andrebbe sicuramente deserto ci potrebbe essere spazio per un'operazione imprenditoriale originale che veda protagonisti - in forma responsabile e volontaria - parte dei lavoratori JP e di quelli che non riassunti da Porcarelli. Ci sono a disposizione 32 milioni di euro dell'Accordo di Programma che non si riescono a smobilizzare perchè le procedure di accesso, di fatto, hanno un timbro orwelliano che vincola, impedisce e scoraggia. Occorre invece il coraggio di usare queste risorse non per creare qualche decina di posti di lavoro a pioggia ma per finanziare un vero e proprio progetto di  autogestione dei lavoratori. Con 32 milioni di euro i lavoratori - a seguito di un eventuale e definitivo annullamento della vendita - potrebbero rilevare alcun asset della ex Antonio Merloni e finanziare le operazioni di avviamento di una "impresa etica" - impegnata in settori della meccanica diversi dal "bianco" - che dovrebbe funzionare col sostegno del sistema produttivo locale, regionale e nazionale e con un ruolo di garanzia e di vigilanza etica assolto dalle parti sociali e dalle istituzioni. Su questo versante è in corso una riflessione da parte della Confindustria Ancona e dell'imprenditore fabrianese Urbano Urbani che è stato il primo, qualche mese fa, a illustrarmi le potenzialità e la fattibilità industriale di questa soluzione originale e creativa. Per questo con il pronunciamento di ieri si dovrebbe chiudere anche una fase segnata dal piagnisteo collettivo, dalla rassegnazione agli ammortizzatori sociali e da una cassa integrazione nata per svolgere funzioni di sostegno temporaneo al reddito e via via trasformata in salario minimo garantito ma non dichiarato. Servono nuovi approcci e nuove soluzioni. Ma più di tutto sono necessarie altre teste e assai diverse da quelle che gestito questa infinita e penosa transizione.
    

29 aprile 2014

Ardo: la bocciatura del Riesame e la storia sbagliata



L’unico dato certo, per ora, è che il Tribunale del Riesame ha confermato l’annullamento della vendita di Ardo a JP come già sancito - nel mese di settembre del 2013 – dal pronunciamento della sezione fallimentare del Tribunale di Ancona. Si tratta di una decisione per certi versi clamorosa perché grazie all’emendamento del deputato democratico Lodolini – opportunamente ribattezzato da questo blog Porcarellum – era stato introdotto un cambiamento della norma direttamente funzionale al ribaltamento della sentenza che aveva stabilito l’annullamento della vendita. Ed erano tutti mediamente convinti che stavolta si metteva davvero una bella pietra sopra tutta la vicenda. La realtà delle cose, come spesso accade, ha sovvertito le aspettative e adesso sarà sicuramente utile capire e approfondire le motivazioni che hanno spinto il Tribunale del Riesame a confermare il pronunciamento di primo grado, sia perché le ragioni allora addotte dal giudice fallimentare Edi Ragaglia restituivano la sensazione di un dispositivo roccioso e convincente - probabilmente confermato in secondo grado -, sia per l’”effetto zero” prodotto dall’emendamento Lodolini, ardentemente richiesto e desiderato dai governatori di Marche e Umbria. A questo punto è probabile che i commissari e Porcarelli – spalleggiati da sindacati incapaci di elaborare una posizione autonoma – ricorreranno in Cassazione, ma va ricordato che non spetta alla Suprema Corte entrare nel merito della vendita ma soltanto esprimere un giudizio di legittimità, ossia verificare che il giudice abbia correttamente applicato quanto previsto dalla legge. Ciò significa che è assai improbabile che la Cassazione arrivi a smentire l’impianto giuridico di un annullamento sancito in primo grado e confermato dal Riesame. Certo è che il pronunciamento del Tribunale del Riesame non sarà immediatamente esecutivo perché nel Decreto Legge "Terra dei fuochi" n°136 del 10 dicembre 2013, è stato inserito un paragrafo (art.9, comma 1) – a conferma di una brutale tendenza a cambiare le regole mentre la partita è in corso - a “salvaguardia della continuità aziendale e dei livelli occupazionali nelle more del passaggio in giudicato del decreto che definisce il giudizio”. Ciò significa che fino al definitivo pronunciamento della Corte di Cassazione i 700 lavoratori riassunti dalla JP continueranno a usufruire del programma di ammortizzatori sociali previsti dalla cessione di Ardo a JP. Ma se la Cassazione dovesse confermare, a sua volta, l’annullamento della vendita, la ex Ardo dovrebbe tornare alla condizione iniziale di soggetto sottoposto al controllo dei commissari straordinari. Il che aprirebbe la strada all’apertura del procedimento fallimentare perché è inverosimile anche il solo pensare a un nuovo e credibile bando internazionale per l’acquisto di Ardo. A quel punto i lavoratori perderebbero i benefici della cassa integrazione lunga ed entrerebbero in stato di mobilità, con ricadute sociali di cui ogni fabrianese ha ben chiara la dimensione e l’impatto. Purtroppo i sindacati invece che riflettere su una risposta lungimirante hanno subito riaperto il tiro contro le banche, quasi che la decisione del giudice di secondo grado fosse, a sua volta, il frutto di un condizionamento esercitato dagli istituti di credito e non invece il risultato dell’applicazione di normative vigenti a tutela dei creditori. In realtà tutto sanno bene quale sia l’origine del male: la vendita di Ardo a JP è di suo una storia sbagliata, un’operazione concepita male che ha ceduto, cammin facendo, per debolezza interna e non per un complotto delle banche e della magistratura. Ma di questo progressivo sbriciolamento, che si è consumato nel corso di almeno cinque anni, proveremo nei prossimi giorni a ricostruire le tappe e gli eventi salienti, perché è giusto avere un quadro d’insieme della vicenda senza limitarsi – come amano fare gli eterni smemorati - a giudicare soltanto l’ultimo evento in ordine di tempo. Il problema di oggi è dare una risposta convincente ai lavoratori e alla comunità fabrianese. Se i sindacati e le istituzioni, una volta tanto, aprissero gli occhi - senza farsi risucchiare dalle sterili dichiarazioni di sdegno, dalle carovane ad Ancona e dai tamburi di protesta – si accorgerebbero che, come ha detto stamattina un amico che se ne intende, si chiude una porta e si apre un portone: un’azione di responsabilità collettiva, una class action dei lavoratori, e magari anche degli stakeholders a diverso titolo coinvolti, contro i commissari ministeriali, ossia contro il dicastero delle Attività Produttive che, a sua volta, potrebbe intentare una causa di rivalsa contro i vecchi amministratori che si sono succeduti al vertice del gruppo Merloni. Ma sindacati e istituzioni non arriveranno a tanto perché scegliere questa strada significherebbe far emergere anni e anni di errori e di complicità che hanno segnato la vita del sistema economico e politico fabrianese. E quando le bombe esplodono le schegge arrivano dovunque e colpiscono chiunque. Più facile e più comodo gridare contro le banche cattive: si passa per amici del popolo e non si corrono rischi.
    

28 aprile 2014

Carifac, Veneto Banca e la DC che non muore mai

I giornali di domenica, primo fra tutti il Corriere della Sera, hanno dato ampio risalto all'assemblea degli azionisti di Veneto Banca che, a seguito della pesantissima perdita di bilancio registrata nel 2013 e delle ispezioni ordinate dalla Banca d'Italia, ha proceduto all'elezione degli 11 membri del nuovo Consiglio di Amministrazione. Nel CdA di Veneto Banca, tra gli altri, è stato eletto, in rappresentanza della Fondazione che aveva diritto a un posto, l'avvocato Maurizio Benvenuto e sul merito di questa nomina ci occuperemo in un post di prossima pubblicazione. Ma l'uscita di scena di Trinca e Consoli ha sollecitato anche un tempestivo intervento dell'ex sindaco Roberto Sorci, storico avversario del vecchio board di Veneto Banca e pugnace oppositore dell'operazione. Con un'anticipazione consegnata al Resto del Carlino, il Sindaco Emerito di Fabriano ha, infatti, annunciato l'imminente pubblicazione di un volume dedicato alla vendita della Carifac a Veneto Banca. Il libro, di cui al momento si ignorano formula editoriale e modalità di distribuzione, è destinato a diventare, sin dalle prossime settimane, oggetto di una polemica politica di cui è facile supporre le dinamiche, prevedere la temperatura e immaginare gli sconfinamenti. Il titolo del libro - che è una novità in una città che tollera soltanto ricostruzioni basate su un minimo sindacale di almeno vent'anni di distanza dai fatti - già restituisce il filo conduttore e una sintesi essenziale dei contenuti: "Una banca acquistata coi soldi di chi vende". Così come non pare esattamente neutrale il probabile sottotitolo dell'opera sorciana, da cui si prefigura una vera e propria chiamata di correità collettiva: "Lo strano silenzio di una città". Conoscendo Roberto Sorci e la sua forma mentis brutalmente retroscenista ci sono almeno un paio di linee metodologiche e di stesura che si possono presumere, anche senza disporre in anticipo del manoscritto: da un lato il probabile ricorso a una concatenazione mirata di dettagli, circostanze, allusioni politiche e "corridoi" informali impastati con l'abilità di un Mino Pecorelli pedemontano e destinati a rivelare un complotto di cui tutti sapevano e tutti tacevano. Tranne uno, ovviamente: Roberto Sorci; dall'altro una ricostruzione incentrata su una contestualizzazione breve, ossia su quanto accadde in quell'arco temporale delimitato dai primi abboccamenti tra i vertici di Carifac e di Veneto Banca e l'ingresso ufficiale dell'istituto del Nord Est nel capitale Carifac. Sviluppare una contestualizzazione di lungo periodo significherebbe, infatti, risalire alla natura e alla storia non certo ortodossamente bancaria e creditizia di Carifac, istituto che - assieme all'Ospedale, al Comune e alle industrie Merloni - fu uno dei quattro pilastri del consenso e del potere della Democrazia Cristiana a Fabriano. Ossia di quel partito di cui Roberto Sorci fu segretario cittadino dal 1985 al 1990, quindi assessore nella giunta Merloni (quella trionfante del 1990) e poi erede politico nei suoi due mandati da sindaco. Una escalation politica frutto non solo di capacità personali e politiche, ma anche di quel sodalizio eterno tra democristiani che, a Fabriano e non solo, è rimasto intatto a prescindere dalle scelte politiche dei singoli e dallo spacchettamento del voto alla Balena Bianca tra Pd e Udc. Parlare di Carifac e della vendita di Carifac significa, quindi, avere la piena consapevolezza che si tratta del declino di un centro di consenso bianco, di un regolamento di conti tra democristiani e di una modifica degli equilibri politici che intercorrono tra di loro. Un po' come, assai più in piccolo, fu la Coop per i comunisti. E da questo punto di vista sarà davvero interessante scoprire la "parentopoli" bancaria su cui l'ex sindaco sembra intenzionato a mettere il dito. Perchè sono proprio le assunzioni, i vecchi concorsi farsa e le ragazze di buona e fedele famiglia spedite agli sportelli della banca la cartina di tornasole di quella governance tutta Biancofiore che fu ragione di clientelismo e di sfascio strutturale e gestionale dell'istituto bancario fabrianese. Quindi il testo di Sorci - al di là del valore documentale e di testimonianza che indubitabilmente sarà in grado di esprimere  - non sarà soltanto un utile seppur parziale libro inchiesta, quanto un episodio di guerra sotterranea rispetto alle nuove configurazioni del potere democristiano che la crisi ha purtroppo mantenuto e consolidato. E' assai probabile che l'ex Sindaco non sbagli quando sostiene che Carifac è stata svenduta, ma resta da capire se la cosiddetta svendita sia stata frutto di intenzionalità o di un'ultima spiaggia incentrata su un salvataggio senza alternative. Così come sarebbe utile ricostruire la storia economica di Carifac per comprendere quali politiche di lungo periodo abbiano determinato il contesto di "svendita"", chi sia stato a svuotarla, quali specifiche operazioni di svuotamento siano state compiute e avallate e quale ruolo abbiano giocato, nel destino della Carifac, alcuni grandi gruppi industriali locali e il loro ritenere l'istituto una sorta di sputacchiera buona per tutti gli usi e per tutte le stagioni. Nel libro di Sorci, che questo blog avrà il piacere di recensire e discutere direttamente con l'autore, pare ci sia anche un capitolo dedicato agli appoggi politici a Veneto Banca. Su questo versante offro ai lettori un mio contributo personale perchè credo di essere stato l'unico a dichiarare apertamente il proprio sostegno a Veneto Banca mentre tutti attendevano di capire chi fosse il vincitore e quale probabilità di successo potesse avere la cordata promossa e capitanata da Francesco Merloni. Il 15 ottobre del 2009, in veste di segretario cittadino della Lega Nord, inviai ai quotidiani locali un comunicato stampa di sostegno all'operazione di acquisizione, che riporto integralmente e che a distanza di quasi cinque anni sottoscrivo ancora nelle sue linee generali: "La Carifac ha perso molti treni. Mentre altre casse di risparmio marchigiane si aggregavano l’istituto fabrianese rimaneva da solo convinto di potercela fare. La crisi della Antonio Merloni e dell’indotto hanno rotto l’incantesimo dell’autosufficienza. Oggi la Carifac, per restare sul territorio, ha bisogno di un’altra banca che metta i soldi e tuteli il credito della nostra terra. Per rimanere ancorato al territorio l’istituto perderà un po’ della sua autonomia. Ci dispiace come fabrianesi ma è sempre meglio un po’ di autonomia in meno che un declino sicuro. Meglio una Carifac viva, in un gruppo bancario che garantisce, che consegnata al libro dei ricordi. Le banche devono fare accordi con altre banche, che conoscono il mestiere e possono portare vantaggi ed opportunità. Le altre soluzioni sul tappeto parlano di salvaguardia del territorio ma rientrano nei disegni della grande impresa globalizzata e senza radici e non in quelli dell’artigianato, del commercio e della piccola impresa territoriale. Per queste ragioni valutiamo positivamente l’accordo tra Carifac e Veneto Banca. Non è sicuramente un accordo da applausi ma l’unica soluzione possibile tra quelle che passa il convento. Adesso tocca a Veneto Banca scoprire le carte pubblicamente. I massimi dirigenti vengano a Fabriano, incontrino i lavoratori Carifac, la popolazione locale, la società e le imprese. Perché per fare accordi sul territorio non basta mettere i soldi ma serve innanzitutto il consenso. Dimostrino con le scelte concrete di non agire da colonizzatori e di non essere interessati soltanto a comperare sportelli." Di fatto fui l'unico politico fabrianese a prendere esplicitamente posizione a favore di Veneto Banca e lo feci per una duplice ragione, politica e gestionale: perchè sostenere l'ingresso di un soggetto esterno era l'unico modo di staccare la Carifac dal sistema di potere democristano che aveva affondato Fabriano e l'unica possibilità di farla agire da banca invece che da ufficio di collocamento della Dc. Veneto Banca ha sicuramente tradito le attese e ha agito da colonizzatore focalizzato a crescere per acquisizioni selvagge, ma lo sfascio che aprì la strada alla necessità del salvataggio e a quella vendita non proprio conveniente ha una sola mano e un'unica regia: la Democrazia Cristiana e ciò che negli ultimi anni ne ha preso il posto - in termini di sigle politiche - senza alterarne la continuità e le solidarietà incrociate. E sono davvero curioso di apprendere la versione di Roberto Sorci e di registrare, nel caso con grande piacere, anche la presenza qualche elemento di verità politica e sistemica (1. continua)
    

23 aprile 2014

Tra Crocetti e BP io sto con Bonafò, futurista de noantri



Sarebbe utile procedere a una disamina del livello di cultura politica di alcuni esponenti della maggioranza, perché correlare la drammaticità della situazione cittadina all’inadeguatezza dei decisori prefigura la certezza di un divario incolmabile tra ciò che servirebbe fare e quanto viene realizzato  o dichiarato. Prendiamo il segretario del Pd, principale partito di governo locale. Tanto per dirne una: mentre fioccano le polemiche sul bilancio partecipativo e sulla formuletta da sagra della trippa, orgogliosamente escogitata da qualche Bertoldo di paese  e spacciata come modello d’innovazione civica, si viene a sapere che sul BP ha deciso di dire la sua il giovane segretario del Pd. Speranzosi fino all’ingenuità abbiamo immaginato le fresche parole del  segretario, i suoi inattesi correttivi di buonsenso, il fiorire di soluzioni creative e di procedure capaci di cancellare l’impronta geriatrica che governa e orienta il pensiero del centrosinistra fabrianese. Invece no. Il segretario Crocetti è arrivato per ultimo. Come “amen”. E si è accodato lesto lesto ma fuori tempo massimo: gli altri decidono, rilanciano e ritrattano e dopo una settimanella  – lemme lemme – giunge Crocetti e ratifica il deja vu, come se quel  suo continuo annuire innanzi a ciò che gli passa sopra conti qualcosina o come fosse sintomo di direzione politica il timbro di ratifica che una Giunta disobbediente gli lascia imprimere su decisioni adottate senza mai troppo discutere. Finora il volenteroso Crocetti ha perso tutti i treni possibili – convogli di sola andata sia chiaro - per mostrare e dimostrare la sua stoffa di politico e di rottamatore locale. Lo ha fatto scegliendo un profilo notarile e assenteista rispetto ai grandi temi che fa a pugni con il disegno politico che lo aveva condotto alla segreteria del PD e con il tratto generazionale che dovrebbe caratterizzarne il pensiero e l’azione. Insomma Crocetti non è rock ma lentissimo. E la posizione assunta sul caso del Bilancio Partecipativo è esattamente un sintomo emblematico di inadeguatezza politica, perché come ha ruvidamente sintetizzato un amico, non giri senza mutande nel pieno di una tempesta di cazzi. Ed è esattamente quel che ha fatto Crocetti, sostenendo la pacchianata sagramoliana e tiniana sul finto bilancio partecipativo. Ma se Crocetti incarna la quintessenza di una delusione politica – dato che il mio iniziale giudizio sospensivo è rapidamente diventato pollice verso – il compagno Bonafoni, dall’alto delle sue molte primavere, rappresenta il culmine della goduria. Non a caso qualche giorno fa rivolsi al Pd, via Facebook, un’angosciosa e appassionata domanda: ma perchè candidate alle Europee la Bonafè quando c’avete Bonafò? E’ un interrogativo irrisolto ma centrale, che trova nuove ragioni nella richiesta inoltrata dall’Uomo del Dopolavoro F.S. di riaprire al traffico un po’ di centro storico e di tagliare qualche ora ZTL. Sostiene Bonafò: far circolare un po’ di auto potrebbe contribuire a rendere meno triste e abbandonato il nostro centro storico. Posso dire una cosa? Ha ragione il prode Bonafò e, mortorio per mortorio, è sempre meglio qualche sgassata sotto l’arco del Podestà che una piazza vuota come in un De Chirico ma senza il fascino di quell’opera pittorica. In fondo il centro storico di Fabriano è, nell'insieme, un esteso e lussureggiante parcheggio a cielo aperto. E per completare l’opera manca soltanto il transito permanente in Corso della Repubblica, un tempo salotto buono e oggi spazio svuotato. A quel punto la bruttura sarà completa in ogni sua piega e ce la finiremo co sta pugnetta del turismo e delle cose belle. Sia di nuovo il tempo delle auto e dei motori. Bonafoni futurista, Marinetti de noantri!
    

22 aprile 2014

Il vestito nuovo del Re Nudo e le 4 Porte scardinate da Giancarlone

 
In questi giorni mi sono imposto una no fly zone rispetto alla politica fabrianese, coltivando precisi intenti di bonifica umorale e intellettiva. Rimuovere l'esistenza politica di Sagramola, ignorare gli Alianello, i Saitta e tutto il cucuzzaro restituisce un non so che di benessere, un senso di serenità e di candore che rigenera energie ed empatia. Poi stamattina la realtà è tornata prepotentemente a bussare alla porta. Tutta colpa dell'edicola di Via Benedetto Croce che espone le locandine dei quotidiani e l'occhio è caduto su un titolo "strillato" del Messaggero. Appena la retina ha fissato la parola "Sagramola" ho percepito un istintivo e primordiale desiderio di caverna e un'immediata nostalgia per i fumi, gli aromi e i tannini di questo fine settimana lungo, segnato da digestioni da anaconda e da sopori prolungati, naturale effetto dei lunghi e ipercalorici convivi nazionalpopolari della Santa Pasqua. In attesa che il 25 aprile e il 1 maggio ci rapiscano di nuovo, tenendoci in disparte dall'attualità politica, il ritorno in scena dei fantasmi governativi ci ha consegnato una postilla sagramoliana sul gioco a premi, con opera in conto capitale, che la Giunta - con ignoranza ottocentesca - si era permessa di denominare Bilancio Partecipativo. Dopo che Tini si era inventato in solitaria il giochino dell'opera pubblica fatta decidere a 80 cittadini - selezionati in privata amicizia e senza regolamenti dalle Porte del Palio a complemento di infiorate e disfide - Giancarlone ha proclamato, urbi et orbi, il contrordine compagni! Una smentita del primo annuncio che scontenta tutti e buggera i Priori, convinti che 150 mila euro da investire avrebbero preso forma d'opera pubblica in lode e gloria del loro nome e di alleanze tutte trasversali da formulare nelle prossima settimane e prima dell'inizio dei festeggiamenti del Patrono. Le proteste di chi se ne intende di BP e le rimostranze degli eletti - consapevoli che il Civico Consesso sarebbe contato meno di una riunione alla Pisana - hanno spinto Giancarlone alla gaffe che tanto si attendeva. Puntualissimo lo Special One di Palazzo Chiavelli ha comunicato che le Porte non decidono una beata minchia ma si limitano a discutere e a proporre progetti d'opera. La scelta non spetta a loro, sedi di coordinamento delle celebrazioni paliesche trasformate d'incanto in organi decisionali a tema e poi ricondotte a forza a consultori senza riconoscimento formale e di Statuto. Ma quel che conta, secondo lo Special One, è che la gente si senta coinvolta, che si illuda di contare, che possa dire una parola ma a condizione che quella parola non sia mai l'ultima. Perchè partecipare è una cosa bella pappappero, con questa democrazia locale e municipale declassata a un girotondo d'ACR, a una rassegna di giochi informali e vespertini in cui il Bilancio Partecipativo vale una partita di palla prigioniera, a un girotondo di parrocchia, a un fine giornata vociante in oratorio. Il problema è che la manomissione delle parole - in cui Giancarlone eccelle senza razionalità ma di solo puro istinto - non cancella la mossa abborracciata, l'ostinazione ridicola e a smerciare come Bilancio Partecipativo e buona prassi concertativa una roba che farebbe porca figura tra le attrazioni della Festa di Santa Maria. In una celebre favola del danese Andersen, adattissima all'analisi del potere, un'intera comunità si stupisce nel rimirare il vestito nuovo dell'Imperatore e ne plaude la sfilata e il passaggio. Fin quando sopraggiunge l'innocenza di un bambino a fare giustizia della finzione e della manomissione; un piccolo che si rivolge felice alla madre semplicemnte gridando che il Re è Nudo. E Sagramola, Re nudo e denudato, potrebbe davvero approfittare del ponte lungo di aprile per ridare uno sguardo a quella favola, così ricca di stimoli e di lezioni. Perchè prendere le distanze da se stessi è sempre un modo intelligente per eccellere e guarire dall'invadenza del proprio io. Il re è nudo e anche i priori delle 4 Porte da oggi sono più adamitici che mai.
    

18 aprile 2014

Se sugli scrutatori decide Salomone



 
Si avvicinano le elezioni europee e puntualmente ritornano le plance elettorali lungo le strade cittadine. Ma più di ogni altra cosa riemerge, ingombrante e rumorosa come non mai, la questione della nomina degli scrutatori. La normativa ne delega la scelta alla commissione elettorale del Comune e la discrezionalità del pallottoliere  – che è naturalmente frutto non d’arbitrio ma di selezioni e di suggerimenti a monte – scatena polemiche, per la verità noiose e ripetitive, sulle migliori modalità di individuazione degli scrutatori. Le scuole di pensiero che si scontrano - in una gara infinita a chi fa la proposta più bella e più innocente - sono tre, di cui due ufficiali e vocianti e una sussurrata e confermata dandosi di gomito e annuendo in camera caritatis: la scuola Medicea, quella dei Recinti e quella dei Solidali. I Medicei senza se e senza sono quelli che, come per la scelta delle cariche pubbliche nella Firenze rinascimentale, puntano tutto sullo “scrutinio a tratta”, ovvero su una nomina degli scrutatori come frutto di un sorteggio direttamente governato e deciso dal Fato. Con questa procedura, che sembra la quintessenza dell’imparzialità, si mettono formalmente i cittadini sullo stesso piano, ma col possibile paradosso finale di quando piove sul bagnato, ossia che il centinaio di euro previsti per la prestazione al seggio possa essere incassato dal già benestante piuttosto che dall’indigente o dall’impoverito. La scuola maledetta – e quindi meritevole di posizioni soltanto sussurrate - è quella che reclama Recinti: si prende il totale degli scrutatori da nominare e si procede a spartizione politica tra maggioranza e minoranza. Si tratta di procedura assai efficace e sbrigativa ma che presenta alcuni punti deboli: penalizza gli estranei alla politica, i qualunquisti per istinto e per scelta e i cani senza collare, premiando invece la fedeltà e la tendenza alle recinzioni dell’appartenenza. Da qui a dire, come fanno taluni comandati per default a spararle grosse, che tale prassi configura il voto di scambio ce ne corre, perché vendere il proprio voto per un lavoro ci sta pure, ma ipotizzare che si possa farlo per cento euro significa giudicare i propri concittadini degni d’un Achille Lauro che, nella Napoli del dopoguerra, consegnava ai suoi elettori una sola scarpa durante la campagna elettorale, completando il paio in base al risultato finale. La terza scuola è quella dei Solidali e, in apparenza, pare essere quella più convincente, perché inquadra e benedice la remunerazione degli scrutatori nel segno dell' una tantum assistenziale. Il target dei Solidali sono quindi quei cittadini a vario titolo disagiati. Siano essi disoccupati, cassintegrati, inoccupati o in mobilità. Il problema è che la ratifica del disagio si va complicando per via d'una casistica infinita e, al dunque, pure inquinata dalla categoria dei “poveri ma furbi”, ossia da quanti si avvalgono di Isee finalizzati al raggiro, di remunerazioni black, di nuclei familiari gonfiati ad arte e via buggerando. Da questo punto di vista il market sociale, credo abbia consegnato alla politica e alla cittadinanza la prova provata di quanto sia sottile la linea di demarcazione che separa i bisogni reali dal micro tornaconto di chi ci marcia. Di fatto ciascuna delle tre ipotesi di scuola seduce solo in parte ma non convince mai del tutto e fino in fondo. E in questi casi il prevalere dell’una o dell’altra scuola diventa vittoria dell’una scuola sull’altra, ossia ennesimo elemento del conflitto e della polemica politica. Meglio, per una volta, affidarsi a una saggezza orizzontale e paritaria: far contenti tutti, combinando sorteggio, nomina politica e criterio sociale in una stecca para - 33% – 33% – 33% - che di certo non archivia il dubbio ma di sicuro non drammatizza la solita e minuta tempesta nel bicchiere.
    

17 aprile 2014

Le parole manomesse e il gioco del cerino



 
Faccio una premessa per sgomberare il campo da ogni equivoco: se fossi nella posizione di decidere o di influire sul futuro di Unifabriano sarei tra i più convinti nello scriverne l’epitaffio. Visto che non mi piacciono gli accanimenti terapeutici sugli esseri umani men che meno mi sobillano quelli a tutela di enti a fine corsa e senza più ragion d’essere. Unifabriano non solo ha perso pezzi ma non si capisce neanche più cosa sia e cosa rappresenti. L’unica certezza è che nella sua struttura, già da qualche tempo, non sono più ammessi corsi universitari. Quindi Unifabriano non è più un ateneo ma si acconcia a sopravvivere combinando attività poliedriche che somigliano a una zuppa del casale di corsi, corsetti e master tagliati su misura per tenere in piedi la struttura. Non è quindi accettabile la “manomissione delle parole” che ne accompagna l’improvviso ritorno di fiamma mediatico perché, di fatto, non stiamo parlando del salvataggio di una sede universitaria ma di qualcosa che è sempre più complicato inquadrare e definire. Dire la verità è, quindi, una condizione fondamentale per chiarire la posta in gioco. Invece la mobilitazione che si sta sviluppando anche in queste ore, a difesa di Unifabriano, nasce da una sorta di condivisione della reticenza che attraversa trasversalmente enti, istituzioni e schieramenti politici. Pare sia nato anche un Comitato Cittadino a sostegno di Unifabriano che, per ora, ha limitato la sua fantasia difensiva alla richiesta del classico tavolo tra tutti i soggetti coinvolti, dove si ragiona con logica bipartisan e, alla fine, si sbaglia all’unanimità. Ma, come si diceva in precedenza, l’energia della mobilitazione e delle parole dispensate è direttamente proporzionale all’alterazione linguistica che le sostiene. I fondamenti del politicamente corretto e del linguisticamente alterato prevedono, infatti,, che solo gente brutta, sporca e cattiva si possa tirare indietro dal difendere un’istituzione preziosa come un’Università. Se di Università si trattasse e non di qualcosa che, per dirla alla Johnny Stecchino, non je somija pe gnente. In questo quadro è politicamente emblematico della finzione in atto che Sagramola non abbia alcuna voglia di rimanere col cerino in mano e rientra pienamente in questa strategia la decisione di posticipare di un mese l’assemblea dei soci. Di fatto – dopo il passo indietro corale delle principali aziende fabrianesi – il gioco delle responsabilità se lo andranno a rimpallare Sagramola e Papiri, perchè oltre al Comune è la Fondazione l’altro l’azionista di rilievo rimasto nei paraggi di Unifabriano. Su questo versante c’è da registrare il rapido cambio di registro del Presidente Papiri che l’altro giorno annunciava l’uscita di scena della Fondazione, coi suoi 50 mila euro di sottoscrizione annua, e qualche ora dopo ritornava sui suoi passi, confermando la volontà di recedere dal ruolo di socio ma confermando la disponibilità al versamento del contributo di salvataggio. Il gioco del cerino, a osservarlo bene, non è altro che la diretta conseguenza di quel non detto che tutto condiziona e tutto presiede, ossia che nessuno vuole prendersi l’onere e la briga di spegnere Unifabriano per timore di ritrovarsi di colpo target di un’accusa; quella di essere un affossatore di atenei e un distruttore di saperi universitari. Il Comune e la Fondazione, invece di vestire i panni dei fiammiferai che si rimpallano l’ultima parola, dovrebbero condividere una mossa del cavallo : dire ai fabrianesi che Unifabriano chiude perché non è più un’Università. E che finanziare una struttura non più universitaria senza prospettive accademiche, senza strategie e ormai ermafrodita dal punto di vista della formazione erogata, significa ricorrere a elargizioni a fondo perduto e senza neanche la parvenza di un qualche ritorno sull’investimento. E fatti due conti si tratta di un azzardo che né il Comune né la Fondazione sono più nella condizione leggiadra di permettersi.